“Le ombre e le luci di Eutanasia”
A distanza di alcuni anni, nel rileggere la particolare vicenda di Piergiorgio Welby, ci si è resi conto della complessità del problema dell’Eutanasia e dell’enormità dell’impegno a ricercare, comunque, altre soluzioni molto, ma molto difficili.
Più trascorrevano i giorni, infatti, più le successive dichiarazioni di Welby, progressivamente ci hanno allontanato dalla sensazione di trovarci di fronte a un quadro di sofferenza estrema, e persino dalla visione di un premorente, che nulla più aveva da chiedere e meno che mai prometteva di offrire.
Quell’ineluttabile e incontestabile richiesta di morte, strideva netta con il pensiero, con la profondità di giudizio e con la straordinaria vitalità concettuale che il malato mostrava di possedere, e in maniera crescente e straordinariamente potente.
Dalle parole del povero Welby, sono emerse una lucidità di giudizio e un pathos talmente intenso che, solo chi è profondamente legato alla vita, può sentire ed esprimere.
Paradossalmente, gli stessi sentimenti si colgono in molti condannati alla pena capitale, quando avvertono la vita sfuggirgli e, nella drammatica richiesta di sospensione della sentenza, non esitano a porre delega, per la responsabilità della morte, come un incubo da trasferire ad altra autorità.
Un governatore, un dittatore, un giudice assumono, in quelle circostanze, dimensioni inconcepibili, e dispongono, non solo del destino di un uomo, ma anche del mistero stesso della sua fine.
E questo appare, francamente, l’aspetto più ripugnante delle condanne a morte: la programmazione di un evento biologico, con la implicita legittimità del diritto di sospensione della vita di un essere umano.
Un malato terminale, un lungodegente invalido totale, in forme e modi diversi, sono anch’essi dei condannati biologici, fragili e dipendenti, con la sola scelta di un’attesa dolorosa e di un epilogo, anche se quest’ultimo non viene imposto da altri.
Quanto tempo dura l’attesa?
Un giorno, alcune settimane, forse pochi mesi, talvolta anni, per qualcuno addirittura decenni.
Periodi di tempo insopportabili, dolenti, spesso umilianti, e comunque caratterizzati da una solitudine opprimente.
Eppure, quell’imprevedibilità, quell’indeterminabile quantità di tempo che ci separa dalla morte, racchiude in sé l’ultima, tenue ma democratica, caratteristica che lega un uomo malato, più o meno gravemente, ad un altro, apparentemente pieno di vita e di salute.
Nessuno dei due potrà effettivamente aver mai la certezza assoluta che il prossimo momento non sia quello estremo della sua vita.
E chi sta male sente, o la paura della fine o l’insopportabile e opprimente attesa di un momento che non sa come e quando arriverà.
Nel caso di Piergiorgio Welby e di tanti malati nella sua condizione, i giorni scorrevano eguali, lunghi ed inetti, e il tempo comincia a perdere le caratteristiche di variabilità e imprevedibilità, per scandire secondi, ore, mesi, anni di insopportabile omogeneità.
Prima ancora di affrontare il delicato problema della morte e dell’eutanasia, dunque, bisognerebbe soffermarsi, e bene, sul concetto di vita e su quelli di salute, infermità e malattia.
Non possiamo muovere un passo, però, se alle concezioni biologiche non integriamo parametri psicologici, filosofici e teologici.
La confusione che è nata e lievitata in questi anni attorno a questo caso e agli altri che hanno meritato l’attenzione mediatica, ha espresso, prevalentemente, l’affermazione di valori superficiali, proprio perché fondata solo su due, se non su uno solo di questi parametri.
Persino il buon senso comune, spesso di grande utilità e conforto, ha contribuito a rendere il quadro molto frammentato e confuso.
Le stesse considerazioni si possono fare anche per gli stati emozionali, che sono stati cavalcati da sponde troppo contrapposte, perché potessero essere accettati non solo come credibili, ma anche giustificabili.
L’eutanasia, la vita, la morte, l’accanimento terapeutico, non sono assolutamente temi da trattare con unilateralità e, meno che mai è possibile sperare di riuscire a confinarli negli spazi rigorosi, ma angusti di leggi scritte e codificate.
La vita, dicevamo…
La definizione stessa di vita implica l’impegno ad evitare limiti e confini alla sua descrizione.
Forse, per restare nel tema, bisognerebbe assorbire bene la differenza che esiste tra la vita e il vivere.
Nel senso che, la prima comprende la seconda, ma anche vi è riassunta la condizione del “ non vivere”.
Vivere è una condizione privilegiata, che si accompagna all’inconsapevolezza della sua essenza e del suo sentire.
Condizioni che ci mancano e di cui finalmente apprezziamo il valore, quando drammaticamente esse scompaiono o, pesantemente si attenuano.
Vivere è prima di tutto autonomia, e poi relazione.
Autonomia di movimento, sicuramente, e poi ancora di autonomia sensoriale.
Ma anche, e soprattutto, di pensiero.
Essere solo in vita potrebbe non comprendere quest’autonomia.
Questa sottile ma sensibile differenza, è in grado di definire la relazionalità del vivente, come pure del sopravvivente.
Come si vede, i parametri che definiscono un concetto appena abbozzato e, molto primitivo di vita biologica per l’Uomo, si delineano, alla fine, come imponenti e integrati in maniera complessa e conflittuale.
Se ne deduce pure, che è quasi impossibile poter sempre discriminare con precisione i possibili confini tra vivente, sopravvivente, se non addirittura sottovivente.
Quest’ultima osservazione appare troppo importante e va assolutamente tenuta in gran conto, quando ci si avvicina a un sofferente, o si decide di intraprendere una qualsiasi iniziativa; persino nello stilare una legge che definisca i criteri di applicazione di eutanasia o di sospensione dall’accanimento terapeutico.
Dall’esterno è possibile verificare (e con precisione non assoluta) alcuni indici di vita biologica; ma l’alto criterio del vivere è legato, e ci si riferisce ancora e solo a una prospettiva biologica, a valori prevalentemente soggettivi, i soli, che fanno ritenere al singolo sofferente quale spessore e quale qualità caratterizzi questa sua condizione.
Si badi bene: questi indici sono legati a rimaneggiamenti e a rivalutazioni continue nel corso della vita.
Il rischio riduzionistico di caratterizzare solo il livello di vita, per di più riferendoci ai soli criteri di patologia e d’infermità, troppo potrebbe gravare sulle fragili ed umane spalle di chi è chiamato a condividere scelte estreme.
Chi è prigioniero del proprio corpo, come lo stesso Welby aveva drammaticamente dichiarato, non è escluso dal vivere, sopratutto se la sua capacità di pensiero è ancora integra e libera.
Per Welby e altri uomini e donne come lui, a loro sensazione, questo non bastava più, e gli altri parametri erano ormai troppo flebili, per consentir loro di continuare a vivere. E questa dichiarazione era, e rimane, inoppugnabile.
Eppure, molti, tanti, hanno una vita biologica mutilata, ma con il solo parametro del pensiero e del sentire, riscattano tutto il loro “ vivere”; persino se attraversano momenti in cui, troppo leggero e inconsistente sembra apparire il solo appoggio del pensiero e dell’emozione.
Perché sul pensiero e sull’emozione, tanti infermi e premorienti, ci hanno mosso e commosso.
E, almeno in quel momento, il loro è stato un vivere altissimo.
Il più grande scienziato esistente, Stephen Hawking, in una condizione di ormai totale immobilità, dettata dalla sclerosi laterale amiotrofica, da anni sancisce per l’umanità, i grandi passaggi della fisica relativistica e della meccanica quantistica.
Più importante, a nostro avviso, è stato il costatare che Hawking sopravvive con la sua mente geniale, ma il suo corpo lentamente, ma inesorabilmente, lo sta abbandonando: la sua condizione fisica progressivamente si aggrava, parla solo grazie ad un computer che traduce in parole elettroniche i movimenti degli occhi, o l’impalpabile battito delle sue palpebre.
Il grande scienziato, ultrasettantenne, aveva solo 21 anni e studiava a Cambridge, quando gli fu diagnosticata la malattia di Lou Gehrig.
Indubbiamente, sarebbe ingeneroso ed egualmente riduttivo, se applicassimo a tutti lo stesso criterio nel valutare il “ vivere”, assumendo lui come metro di misura.
Tuttavia, è necessario assumere che, non è il contenuto della comunicazione a essere discriminante, ma lo è, al contrario, il modo e la decisione con cui si vuole continuare a comunicare un messaggio passionale ed efficace.
Spesso i preterminali hanno esportato e continuano a diffondere impressioni ed emozioni; anche questi graffiti affrescano ed improntano la condizione del vivente.
Questo vale per tutti, umili e persino ignoranti, nel momento che trasferiscono il loro sentire e la loro essenza.
Che si sia, o che ci si dichiari laici o da credenti, non si può far finta di non vedere in quest’altissima e straordinaria espressione di vita, la mano di Dio o, meglio forse, della Natura, o almeno, la suggestione che deriva dalla complessità d’individualità biologiche irripetibili.
Profondamente intessuta con questa condizione, s’inserisce la risultante psicologica, capace di ridefinire e rielaborare contenuti e investimenti legati alla sensazione del “vivere dignitoso”.
Non sono, queste, sensazioni costruite unicamente su substrati interiori. Questi ultimi si misurano e si adattano a mutazioni ambientali esterne; alcune, è vero sono francamente immutabili (il senso d’inadeguatezza, il disadattamento, il disagio psicofisico), ma altre si fondano su strutturazioni etiche, culturali, sociali, spesso decisive.
Questi impianti, infatti, se disagevoli o irrisolti accentuano la condizione d’invivibilità della malattia e/o della disabilia.
E qui subentrano due condizioni importanti, una di carattere individuale e l’altra più sottilmente collettiva. Profondamente interconnesse.
La prima fa capo a un’atavica incapacità di assistenza del sofferente.
Se si esclude il coraggio di organizzazioni dedite al volontariato, e la frammentaria disponibilità del Servizio Sanitario, la sensazione prevalente è che il malato sia sostanzialmente solo, oltre che isolato.
Solo, perché avendo bisogno di assistenza continua e tecnicamente efficace, non sempre gode di questo supporto ( che è poi un diritto).
Ed è anche isolato, essendo l’isolamento, prima di ogni cosa, una condizione d’inanizione fisica e morale della dimensione creativa e relazionale.
Se la solitudine è, spesso, una condizione derivata anche da scelte volontarie, l’isolamento, al contrario, si caratterizza per un senso di vuoto, di segregazione, che ti spinge a sentirti sperduto anche in una moltitudine di persone.
Non ho certezze per quel che riguarda la condizione di ammalati soggetti fortemente inabili, e di altri pazienti nelle stesse condizioni, ma non ho difficoltà ad immaginare che siano rimasti isolati per anni, con un vuoto incolmabile e un senso d’inutilità assordante, capace di sottolineare, ogni momento, il peso del disagio fisico, espresso da un corpo sempre più immobile e dipendente.
Collettivamente, infine, non siamo attrezzati a pensare che esistano forme diverse di comunicazione e di relazione.
La cultura dominante è troppo performante perché integri il solo pensiero che esistano soggetti con minorazioni psicofisiche in grado di contribuire alla crescita sociale, culturale, economica.
Lo spartiacque fra sani e malati, fra abili e disabili, riconosce solo da pochi decenni una distanza meno netta.
Questo valore è profondamente dipendente dallo stereotipo del concetto di salute e di malattia.
Il voler assumere che la malattia è sempre e solo uno stato di non salute e
che l’infermità rappresenta una deviazione netta dalle codifiche del benessere, è una leggenda dura a morire.
Lo stesso corso di Laurea in Medicina è strutturato su questo paradigma.
Che è, e non solo in questo caso, ambiguo, e conferma rimozioni irrecuperabili.
Da un lato l’Anatomia Umana nomale e la Fisiologia, dall’altro la Patologia, divise e contrapposte.
In realtà, le prime sono degli artifici didattici, essenziali sicuramente per carità, ma decisamente virtuali, in quanto è improbabile, se non impossibile, che esistano esseri umani indenni da noxae patogene o da minime deviazioni morfostrutturali.
L’unica vera realtà, forse amara e dolorosa, ma sicuramente sincera, è scritta solo nell’Anatomia Patologica, che detta i tempi e i modi corporei dell’umano soggiorno.
Questo condizionamento sui medici e sugli scienziati è talmente forte che, sul tema della lotta ai tumori (uno dei target preferenziali, anzi il target di primo livello per la richiesta di eutanasia), il termine più ricorrente, in passato, è stato quello della “guerra contro il cancro”, a conferma di una strategia di eliminazione della malattia in modo talmente radicale e spietato da distruggere anche il circostante, pur di fare ” piazza pulita “.
Ma il malato dov’è in questa battaglia ? E quale bioetica sovrintende a questo processo?
Una filosofia della medicina, dunque, s’impone.
Una filosofia che correttamente riponga l’Uomo al centro del contenzioso morale, ma anche di quello scientifico.
Il caso Welby è stato paradigmatico di questo disagio, ma, in parte, è stato anche atipico.
La sua infermità, grave e pesante, se catalogata nella corrente filosofia della scienza medica, deputata a scannerizzare freddamente gli indici di sofferenza e d’impedimento, non è assimilabile a tutti i soggetti che vivono la stessa condizione.
E su questo, scienziati e politici dovrebbero ben riflettere.
Non tutti i pazienti, affetti da distrofia muscolare o da sclerosi progressive del sistema nervoso, scelgono sempre di morire; per molti, il percorso sembra essere opposto!
E’ possibile determinare il parametro o i parametri che rendono eticamente accettabile e umanamente percorribile questa soluzione?
E a quale morale bisogna poi riferirsi?
Altra riflessione: nel caso di Piergiorgio Welby, eravamo di fronte ad un essere umano al quale era negata persino la disperata (e umana, purtroppo) possibilità di farsi fuori!
La soluzione “finale “ spesso è condivisa e correlata con altri attori (familiari o, principalmente, il medico), ma a volte viene percorsa anche da soli.
E di questo non si può far finta di non tenerne conto, come vedremo.
Spesso, ma non sempre, un malato oncologico terminale potrebbe riassumere pienamente e drammaticamente queste coincidenze.
In Olanda, e, forse, anche in Belgio, sono in vendita specifici kit per porre termine alle sofferenze, in una sorta di scorciatoia pietosa che lasci al malato la scelta estrema.
La sofferenza fisica mette all’angolo i dubbi residui.
Forse, e non sempre, almeno una riduzione del dolore, potrebbe aiutare a rendere meno obbligata questa soluzione.
Nel caso Welby, all’epoca, il clamore, suscitato dalla vicenda, andava utilizzato per incentivare la richiesta di aiuti assistenziali ai disabili e agli infermi; la richiesta di sospensione dalla vita, a causa delle sofferenze e delle limitazioni fisiche, dovrebbe essere preceduta dalla estesa applicazione, senza riserve, di tutte le terapie antalgiche e riabilitative possibili ( anche, e soprattutto con i cannabinoidi ).
In quanto, sono primariamente le sofferenze fisiche ad essere insopportabili e a degradare i livelli di dignità e di relazione.
Di tutto questo, nella generosa, legittima e incontestabile battaglia, di e per Welby, e prima e dopo per altri ancora non se n’è vista, francamente, traccia.
Eppure, una lotta così strenua non poteva non comprendere queste esigenze.
Chi soffre, spesso non vede e non sente più oltre a sé, ma chi accompagna, conforta, conferma, e, intende utilizzare per la comunità questo cammino, avendo obiettivi così importanti, non può non soffermarsi su parametri preesistenti, decisivi, quali l’assistenza al malato e la terapia contro il dolore.
Se hanno ancora un senso e un valore, la socialità e la dimensione umana.
Per ultimo, consideriamo’aspetto religioso della vicenda.
Con tutte le connessioni che questo comporta, questo capitolo non poteva essere eluso per molto tempo.
Le espressioni di dissenso che hanno caratterizzato la mancata funzione religiosa per Piergiorgio Welby, e per tutti quelli che decidono in simili circostanze tragiche, di por temine alla loro vita hanno spostato i termini della comprensione dell’evento ben oltre la reale sostanza dell’accaduto.
Si è avuta, sempre, netta l’impressione di aver voluto cercare comunque lo scontro, di aver navigato a lungo per non evitare l’impatto.
Le manifestazioni e il coro di osservazioni sollevate, e che ancora dilaniano le comunità scientifiche e di pensiero e di teologia, di certo non aiutano a comprendere e, soprattutto a ricondurre il “ dramma “ dell’eutanasia nei binari di una ricomposizione corretta.
Che cosa si pretendeva, o ci si sarebbe aspettato dalla Chiesa alla morte per eutanasia?
Che si fossero spalancate le porte delle parrocchie in nome di una generica cristiana pietà?
Come a far rientrare la religione cristiana dalla finestra, dopo averla fatta uscire dalla porta principale.
Nell’intimità della morte e nell’ambito ristretto della famiglia, penso e spero, che un sacerdote non si sarebbe, umanamente e cristianamente, ritratto dall’offrire il suo conforto e il suo ministero al povero Welby.
E vogliamo augurarci, sperare, che questo sia effettivamente avvenuto. E che avvenga…
Durante i funerali, però, pretendere che, in pompa magna, si celebrasse una funzione religiosa, con grande schieramento dei mezzi d’informazione, appariva un gesto troppo ostentato, simbolico, francamente poco spirituale, capace di assumere più i connotati di una provocazione, che quello della richiesta di un’accoglienza cristiana.
Nel caso Welby, un’altra mancanza grossolana, è consistita proprio nel non volere approfondire i temi di questo ritrarsi dalla benedizione della salma e, nel non conoscere i dettami della Chiesa sull’argomento.
E fare finta di nulla…paradossalmente, auspicando e pretendendo che la Chiesa arrivasse prima della legislazione corrente.
Tra l’altro, in barba a tutti i principi concordatari tra Stato italiano e Chiesa cattolica, quest’ultima avrebbe assunto ufficialmente, e con gran diffusione dei media, il ruolo di benedicente e accogliente officiante, mentre lo Stato sovrano si adoperava a emettere avvisi di garanzia per omicidio colposo.
Molti dei cittadini, che con alti lai si sono ribellati (e anche giustamente, per carità) direttamente o attraverso politici, esperti, intellettuali, al rifiuto della Chiesa a provvedere ai suoi uffici verso la salma di Welby (ipocritamente, che accade a chi, con la stessa scelta non accede a diffusione mediatica?), appartenevano, probabilmente, a quei milioni di credenti che, meno di due anni prima, a San Pietro, o per televisione o tramite Internet, dichiaravano il loro empito cristiano alla morte di Giovanni Paolo II.
E allora delle due, l’una!
O si è cristiani consapevoli, anche se dissidenti, o non si accettano per nulla le premesse fondanti della religione cattolica.
La Chiesa si fonda soprattutto sul Dogma, giusto o scomodo che sia.
Non si può dimenticare quest’aspetto quando conviene, o rimuoverlo quando sia stretto.
Se riesaminiamo i testi delle Encicliche, il tema dell’eutanasia, è ampiamente dibattuto nell’ultimo secolo e non senza motivi di sofferenza e di crisi.
L’Evangelium Vitae scritta da Papa Giovanni Paolo II per esprimere la posizione della Chiesa cattolica sul valore e l’inviolabilità della vita umana, promulgata il 25 marzo 1995, si rifà pienamente all’Humanae Vitae, scritta da Papa Paolo VI il 25 luglio 1968. In sintesi, in esse viene dichiarato che « L’uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio ».
Papa Woytila ancora dichiara: “ in conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata, moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale ”.
Ora, quasi tutti i teologi cattolici appaiono uniformi nel considerare come infallibili questi insegnamenti, fondati sull’immoralità dell’omicidio, dell’aborto procurato e dell’eutanasia. Altri teologi, invece, pur accettandone la sostanza, sostengono che questi precetti non rappresentano tanto i simboli dell’infallibilità papale, quanto piuttosto gli esempi dell’infallibilità, quella sì, del magistero ordinario ed universale della Chiesa.
Questo, attenzione , avviene solo e sempre quando tutti i vescovi dispersi nel mondo sono concordi nel ritenere infallibile una certa dottrina.
Queste osservazioni illuminano che, da un lato, le accuse all’attuale pontefice sull’eutanasia sono fragili e fondate sull’ignoranza, e dall’altro, che il rispetto delle liturgie e delle dottrine da parte dei credenti, conoscono spesso comode scorciatoie e passaggi indolori.
Si può dissentire e dichiarare il proprio disaccordo, ma non si può fare finta di non conoscere a fondo i presupposti più delicati e controversi della propria religione.
Con un effetto collaterale di non poco conto: quello di costringere la Chiesa in difesa, di farla arroccare su posizioni conservatrici, di spingerla ad essere sorda verso i cambiamenti e le esigenze della società che cambia.
Le Chiese, sia quella Montiniana sia quella Woytiliana hanno subito questo impatto
(come vedremo fra poco, anche a causa della legge sull’aborto), mentre l’età Giovannea ha espresso, nei temi conciliari, posizioni molto più liberali sui temi sociali. Scrive, infatti, papa Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et Magistra che la “Chiesa, madre e maestra di tutte le genti, ha sulla terra un duplice compito: in primo luogo santificare le anime, ma anche preoccuparsi delle esigenze terrene dei popoli, mostrando, con la sua dottrina sociale, quali siano gli ordinamenti più conformi alla dignità della persona umana e al suo destino eterno.
Alcuni sostenitori dell’Eutanasia, probabilmente a digiuno dei principi delle encicliche, non si accorgono di allargare il fossato che pur esiste tra Chiesa e Società (Società e non Stato, si badi bene) e, in maniera inappropriata, brandiscono la legge sull’aborto come pietra di paragone per il diritto all’Eutanasia.
La legge 194 poneva fine a un evidente ingiustizia e a una pesante situazione sociale.
Il diritto all’aborto chiudeva una pagina vergognosa di clandestinità.
Ma, se riflettiamo bene, se la legge sull’aborto era giusta e corretta, lo stesso non si può dire dell’aborto in quanto tale.
Cioè, l’avere avuto quella legge necessaria, avrebbe dovuto contemporaneamente illuminare su tutte le soluzioni possibili per ridurne l’applicazione, o quanto meno per farne ricorso il meno possibile. Creare delle condizioni, insomma, in cui le donne non siano costrette a pagare sempre il dazio più elevato e più sbilanciato.
Le donne, appunto, che hanno giustamente combattuto la loro battaglia per questo diritto, sanno bene quanto dolore e quale trauma l’aborto comporti.
Ma, onestamente, in questi quasi quarant’anni anni dalla promulgazione della 194, in Italia, quanto è stato fatto per informare e aggiornare sulla prevenzione del concepimento?
E quanto è stato fatto per facilitare l’inserimento e la difesa del lavoro delle donne?
E quanto le politiche sociali hanno fatto per costruire asili nido, quanti investimenti sono stati stanziati per il sostegno economico e psicologico delle minori in stato interessante, e quanto, ancora oggi, ci s’impegna seriamente per l’assistenza sociale e sanitaria dell’infanzia meno protetta?
E sul punto concernente la prevenzione del concepimento, il dissenso, assai poco difendibile, della Chiesa, trae radici anche dalla radicalizzazione delle campagne politiche dell’epoca.
Per riagganciarci al tema dell’eutanasia, la legge “sull’aborto” consentiva (e consente) anche l’obiezione ai medici dissenzienti.
Se venisse promulgata una legge sull’eutanasia, potremmo ipotizzare la stessa scissione?
Addirittura si potrebbe creare una specializzazione medica.
Per legge, potremmo avremo i medici eutanasistici, i tanatologi.
Come per il parto pilotato o i cesarei programmati, il medico fisserà la morte dell’infermo prima di un week end in montagna, o dopo un paziente raccomandato.
Ma il medico, allo stato attuale, alla luce della forte esigenza di una legge che disciplini questo argomento, è pronto, è realmente in grado, non tecnicamente, ma umanamente e culturalmente ad affrontare un impegno così severo?
Come per la legge sull’aborto anche per l’eutanasia, esiste un peccato originale, una falla profonda, per quel che riguarda la classe medica.
Questa lacuna gravissima coinvolge ormai tutta la professione sanitaria.
Una professione talmente tecnicizzata e tecnicistica, da mettere in crisi proprio il suo attore principale: il medico.
Senza l’aggiornamento, dettato dai cambiamenti sociali, dai temi di Medicina legale e di psicologia, il percorso del medico apparirà stentato e falloso.
Ma, soprattutto, senza l’inserimento, nel corso di Laurea in Medicina, di materie, divenute, a questo punto, indifferibili e formative, come la storia della medicina, la filosofia della scienza, la bioetica, la teologia, l’antropologia culturale, ecc., la professione medica è destinata a naufragare.
Altro che eutanasia…
Con quali strumenti etici, morali, culturali, religiosi ( anche in senso laico), il medico potrebbe oggi affrontare il rifiuto o l’espletamento dell’eutanasia?
Una legge, per quanto completa (e stento, per l’argomento, ad immaginare che sia possibile) non riuscirebbe mai ad essere esaustiva per ogni singola vicenda umana.
Che non è solo la scelta (al letto del sofferente) tra chi vuol morire e chi no, ma anche e soprattutto l’interpretazione del conflitto irrisolto e, poco legiferabile, di ciascuno di noi di fronte al mistero stesso della vita, e davanti al dubbio e all’incertezza della morte.
L’ipocrisia di voler omologare tutti i malati e tutti gli infermi ai soli parametri clinici obiettivi, è la più rozza e ipocrita strumentalizzazione dell’arte medica.
Il non riuscire a leggere in filigrana il valore stesso delle singole esperienze del dolore, della sofferenza e dell’infermità, non consente di decifrare, nemmeno lontanamente, quale sia il senso personale che il malato avverte del suo stato e delle sue emozioni.
Forse, solo i malati di cancro in fase preterminale, appaiono appiattiti e abbastanza simili, a causa di una malattia così infida e connaturata, da annunciare la morte soprattutto nell’allontanamento dai parametri caratteristici della vita, quali quelli della singolarità e dell’individualità.
I malati oncologici, come tutti gli infermi del resto, devono però ricevere un aiuto consistente: dopo esserci adoperati per allontanare da loro l’indegnità del dolore (e si può fare benissimo!), questi malati meritano assolutamente una mano preparata, priva di criticismo, capace e matura, edotta e forte, per accompagnarli verso la fine.
E che quest’accompagnamento avvenga col conforto della conferma della loro irripetibile originalità, e non solo nell’appiattimento e nel vincolo di parametri circoscritti e stabiliti da una legge.
Forse tutto questo nella vicenda Welby non è stato fatto, e, nel caso dell’eutanasia o dell’interruzione dell’accanimento terapeutico (per la dolorosa storia di Piergiorgio è stata la stessa cosa), bisognava coinvolgere, in maniera più diretta e passionale, tutte le componenti della società civile e religiosa, dal momento che si era deciso di farne un evento mediatico e politico imponente.
In questa dolorosa esperienza, è emersa un’altra nota, triste e stonata: quella di non voler capire che la morte è ancora e sempre qualcosa d’intimo, qualcosa di privato…
Il mistero laico della morte, oserei dire, non più solo quello religioso.
Anche un presidente, un pontefice, un uomo pubblico, ha un intimo nella morte: questo “ intimo” è il risultato terreno della fragilità umana, ma anche della sua solitudine originaria…
Come il raggio verde del tramonto, qualsiasi morte congeda dalla vita con l’estrema emozione che caratterizza la sua fine, la sintesi, cioè, di tutte le caratteristiche emotive e fisiche che hanno caratterizzato la vita stessa. E se è presente, anche la paura, quest’ultima scandisca le estreme sensazioni e si adatti al vissuto di ciascuno di noi.
Il povero Welby avrà così attraversato quegli estremi momenti?
Ai media è arrivata solo l’eco della sua battaglia, di un forte messaggio sociale.
Non vorremmo che quella morte fortemente voluta, riempita e stracolma di tante istanze, abbia oscurato il senso finale di quegli ultimi respiri…
E per tutti noi, per tutti quelli, che hanno attraversato e che potranno attraversare questo percorso? Nessun preclusione precostituita o rigide contrapposizioni.
Quindi, non il rifiuto dell’eutanasia in quanto tale, ma l’applicazione corretta di questa evenienza…
Che sia surrettizia all’enigma della vita e non distolga il sofferente, nel momento del trapasso, dall’essenza del sé, del suo dissolversi e del suo risolversi nel mistero della morte.
Un’ultima riflessione…
Se Welby non ha avuto questa irripetibile intimità nella morte, perché il frastuono della sua vicenda lo ha distolto dall’impegno finale per sé, per concentrarlo sino alla fine su un’onesta battaglia di tutti e per tutti, questo appare molto doloroso.
Il mistero della morte richiede, assolutamente, di concedersi solo a noi stessi, per l’irripetibile esperienza che il congedo dalla vita dispensa. Se non c’è stato, è stato un ulteriore sacrificio.
E a questo sacrificio, non si può comunque non riconoscere il rispetto e l’amore dovuto.
Dott Pierluigi Gargiulo
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