Mimetismo anticorpale e Covid-19 Prendendo spunto da un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine il 24 novembre 2021, analizziamo una teoria che potrebbe spiegare molte delle sintomatologie legate al covid e che chiama in gioco reazioni immunitarie complesse tra le quali i meccanismi dell’autoregolazione e del mimetismo anticorpale. Un utile spunto per approfondire questi meccanismi che molti studiosi ritengono essere alla base anche di patologie autoimmuni come la dermatite atopica, la celiachia e l’artrite reumatoide. Nonostante siano passati ormai due anni, la patogenesi dell’infezione causata dal virus SarsCoV2 non è ancora del tutto compresa e diversi aspetti rimangono oggetto di confronto all’interno del mondo scientifico ed accademico. In particolare, si sta cercando di dare una risposta agli effetti multiorgano dell’infezione. Inoltre, desta preoccupazione la sindrome del cosiddetto longcovid, ovvero le conseguenze che in alcune persone si riscontrano anche a molti mesi di distanza dalla guarigione in diversi distretti dell’organismo. Appare evidente che questi danni, che persistono anche a notevole distanza dall’eliminazione del virus, siano da attribuire a reazioni di tipo infiammatorio, con una molto probabile matrice autoimmune. In questa ottica, ci sembra molto interessante analizzare l’ipotesi contenuta in un articolo pubblicato di recente sul NEJM dai ricercatori del Departments of Dermatology and Internal Medicine, Division of Hematology and Oncology della University of California. Va detto che si tratta, per l’appunto, di una teoria. Del resto, il compito della ricerca di base, troppo spesso trascurata a favore della sola ricerca clinica, è proprio quello di offrire spunti di ipotesi e spiegazioni a fenomeni che poi richiederanno una conferma sul campo. Questa interazione tra chi svolge ricerca clinica e chi lavora in laboratorio è bidirezionale: le osservazioni cliniche spesso pongono nuove domande alla ricerca di base, che poi, a sua volta, offre nuovi stimoli alla clinica. Noi farmacisti, pur non essendo dei ricercatori, abbiamo le competenze per favorire questo percorso di sintesi tra ipotesi e dati osservazionali e il nostro punto privilegiato di ascolto e di contatto con il pubblico potrebbe rappresentare un valore aggiunto per il mondo scientifico. Aspettando che il futuro ci riservi anche una maggiore integrazione in questi ambiti, molti colleghi si documentano e studiano, approfondendo diverse questioni legate alla ricerca di base. Questo articolo si rivolge, in particolare, ai colleghi che, quotidianamente, fanno questo sforzo nell’ottica di informarsi e comprendere meglio i fenomeni fisiopatologici che ci circondano. Tornando alle questioni che riguardano l’infezione da Sars-Cov2, una delle domande che più affligge molti osservatori è: “Come possiamo comprendere la grande diversità nelle risposte all’infezione in persone diverse?”. Detta in altri termini, come mai in alcuni l’infezione genera risposte importanti in diversi distretti dell’organismo e in altre persone la sintomatolgia rimane lieve o inesistente? Di certo, la carica virale gioca un ruolo di peso, ma questa potrebbe non essere l’unica risposta. La teoria delle reti anticorpali Per comprendere l’ipotesi formulata nell’articolo, occorre richiamare la teoria delle risposte immunitarie anti-idiotipi e della rete anticorpale formulata nel 1974 dall’immunologo danese Niels Jerne. Va ricordato che nel 1984 Jerne ottenne il Premio Nobel per la medicina (con César Milstein e Georges Köhler) proprio per la teoria della rete (o del network immunitario) che descriveva un meccanismo mediante il quale le risposte anticorpali a un antigene inducevano esse stesse altre risposte anticorpali contro l’anticorpo antigene-specifico. Spieghiamo meglio questo concetto: ogni anticorpo indotto e specifico per un determinato antigene (denominato anticorpo “Ab1”) presenterebbe a sua volta regioni immunogeniche, in particolare nei suoi domini di legame all’antigene della regione variabile. Questa ricombinazione dei geni variabili dei linfociti immaturi determina una grande differenziazione e una fusione casuale di segmenti genici denominati VDJ (Variable, Diversity, Joining). La ricombinazione VDJ si traduce in nuove sequenze di amminoacidi immunogeniche chiamate idiotopi, che sono quindi in grado di indurre anticorpi specifici contro gli anticorpi Ab1 come una forma di down-regulation. Un paradigma simile è stato proposto per le cellule T Si tratta, per farla semplice, di un complesso meccanismo non ancora del tutto chiarito e, quindi, non unanimemente accettato, finalizzato a regolare la risposta anticorpale. Gli anticorpi degli anticorpi, per intenderci, come sistema di autoregolazione tramite una sorta di “feed-back” immunitario. Tuttavia, questo sistema può fare molto di più che una semplice risposta immunitarie regolatoria e può, talvolta, provocare dei danni. Come spiegano gli autori, i paratopi, o domini leganti l’antigene, di alcuni degli anticorpi anti-idiotipi (o “Ab2″) risultanti che sono specifici per Ab1 possono assomigliare strutturalmente a quelli degli antigeni originali stessi. Pertanto, la regione di legame dell’antigene Ab2 può potenzialmente rappresentare un’immagine speculare esatta dell’antigene iniziale. Come risultato di questo mimetismo, gli anticorpi Ab2 hanno anche il potenziale per legare lo stesso recettore a cui mirava l’antigene originale, potenziando gli effetti patologici dello stesso. Gli anticorpi Ab2 che si legano al recettore originale sulle cellule normali hanno quindi il potenziale per mediare effetti profondi sulla cellula anche molto tempo dopo che l’antigene originale stesso è scomparso. Per quanto riguarda il possibile ruolo di questi meccanismi autoimmuni nella patologia Covid-19, i ricercatori della Univeristy of California autori dello studio recentemente pubblicato sul NEJM, suggeriscono che non solo il virus, ma anche le risposte anti-idiotipiche potrebbero influenzare la funzione del recettore ACE2, con effetti simili ai danni provocati dalla spike del virus. Prima di entrare nel dettaglio di questa ipotesi, vediamo come, negli anni passati, le teorie attorno a questo meccanismo si siano susseguite, cercando di offrire spiegazioni a malattie di difficile comprensione come diverse malattie autoimmuni e, perfino, l’aids. La teoria della rete e il suo possibile ruolo nell’aids Gli aspetti legati alla regolazione delle risposte delle cellule immunitarie sono stati postulati da Paul H. Plotz nel 1983 come possibile causa dei fenomeni di autoimmunità che insorgono dopo un’infezione virale. Da allora, questa ipotesi è stata supportata sperimentalmente, indagando sul trasferimento diretto di anticorpi anti-idiotipi. Per esempio, alcuni esperimenti hanno dimostrato che gli anticorpi Ab2 generati contro l’enterovirus coxsackievirus B3 nei topi possono legare gli antigeni dei miociti, con conseguente miocardite autoimmune, mentre le risposte anti-idiotipiche possono agire come agonisti del recettore dell’acetilcolina, portando a sintomi di miastenia grave nei conigli. Inoltre, visualizzando l’immagine speculare dell’antigene virale, l’Ab2 da solo può persino imitare gli effetti deleteri della particella virale stessa, come è stato dimostrato con l’antigene del virus della diarrea virale bovina. Un modello di network immunitario è stato ipotizzato in una pubblicazione del 1994 anche per la patogenesi da Hiv. A questa pubblicazione ne seguì un’altra nel 2002 intitolata ” L’Hiv preferenzialmente infetta specifiche cellule T CD4+”. Queste ipotesi spiegherebbero il perché ci sia un periodo variabile e molto soggettivo tra l’infezione da Hiv e la eventuale insorgenza di Aids. Va precisato che questa teoria è ancora oggi oggetto di studio e di confronto, non avendo ancora prodotto non ha prodotto alcuna ricaduta clinica. Secondo queste ipotesi che chiamano in gioco il network immunitario, la principale causa di progressione ad Aids successivamente all’infezione da Hiv non risiederebbe semplicemente nell’uccisione da parte del virus dei linfociti T helper. A seguito di un’infezione da Hiv si scatenerebbe infatti una complessa interazione tra il virus, le cellule T helper da esso infettate e le cellule T soppressor, con la possibile formazione di epitopi virali arriverebbero a mimare le regioni V della maggior popolazione delle cellule T soppressor. A questo punto, il sistema immunitario adattativo sarebbe interamente compromesso e sopraggiungerebbe l’Aids. Secondo questo modello, l’insorgenza dell’Aids sarebbe soprattutto una reazione autoimmune innescata dalla cross-reazione degli anticorpi anti-HIV con le cellule T soppressor. Una volta che questi fenomeni autoimmuni si innescano, l’eliminazione del virus (ad esempio tramite HAART) non sarà comunque sufficiente a ripristinare una funzione immunitaria corretta. Il ruolo della proteina Spike nel Covid Per l’infezione da SARS-CoV-2, l’attenzione si è da subito concentra sulla proteina spike (S) che, oltre a contraddistinguere il virus Sars-cov2, è fondamentale per il suo legame con il recettore dell’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE2) utilizzato dal virus per ottenere l’ingresso nella cellula. Il recettore Ace2 è indispensabile nella regolazione delle risposte dell’angiotensina (vedi l’articolo dal titolo “Una poltrona per due” pubblicato nel numero 2/2021 di Nuovo Collegamento). Una volta legato dal virus, questo recettore non è più disponibile per le sue normali funzioni fisiologiche. Ace2 è il bersaglio non solo del virus, ma anche, secondo questa teoria, del complesso che si può formare tra anticorpi Ab1 e Ab2, con una forte implementazione dei danni provocati dal virus proprio in virtù di questa anomale reazione di tipo autoimmune. Ma la spike non è presente solo nel virus. A seguito della vaccinazione viene prodotta dalle nostre cellule, proprio per fare in modo che si sviluppi quella risposta immunitaria che ci protegge dalle conseguenza di un futuro attacco virale. Gli autori ricordano che “di certo, lo sviluppo di molteplici ed efficaci vaccini è stato fondamentale nel controllo della pandemia, ma la loro efficacia è stata limitata dalla comparsa di varianti virali e i vaccini possono essere associati a rari effetti off-target o tossici, tra cui reazioni allergiche, miocardite e trombosi immuno-mediata e trombocitopenia in alcuni adulti sani. È probabile – continuano gli autori – che molti di questi fenomeni siano immuno-mediati”. Tuttavia, collegare i rari effetti avversi al fenomeno del mimetismo anticorpale è molto arduo e non può che rappresentare solo una ipotesi che, seppure interessante, almeno fino a quando non sarà dimostrata clinicamente. Del resto, come conferma l’articolo pubblicato sul NEJM, “la definizione di potenziali risposte antiidiotipiche presenta difficoltà intrinseche a causa della natura policlonale delle risposte, della cinetica dinamica e della contemporanea presenza di anticorpi sia Ab1 che Ab2. Inoltre, l’espressione di ACE2 all’interno di cellule e tessuti può essere variabile. È anche probabile che le diverse tipologie di vaccino (RNA, DNA, adenovirale e proteina) abbiano effetti differenti sull’induzione di Ab2 o sulla mediazione degli effetti del vaccino che differiscono dalle risposte all’infezione. Alcuni effetti fuori bersaglio potrebbero non essere direttamente collegati alle risposte Ab2”. A conferma di ciò, il fatto che l’associazione di eventi trombotici con alcuni vaccini SARS-CoV-2 in giovani donne e il ruolo eziologico degli anticorpi anti-fattore piastrinico 4- polianione può essere il risultato del vettore adenovirale. Per contro, evidenziano gli autori, “l’occorrenza segnalata di miocardite dopo la somministrazione del vaccino presenta sorprendenti somiglianze con la miocardite associata agli anticorpi Ab2 indotti dopo alcune infezioni virali. Gli anticorpi Ab2 potrebbero anche mediare gli effetti neurologici dell’infezione da SARS-CoV-2 o dei vaccini, data l’espressione di ACE2 su tessuti neuronali, gli effetti neuropatologici specifici dell’infezione da SARS-CoV-2, e la somiglianza di questi effetti con gli effetti neurologici mediati da Ab2 osservati in altri modelli virali”. Come si vede, questa teoria non offre risposte, ma apre il campo a nuovi ambiti di ricerca. del resto, la scienza si nutre di dubbi e di tesi. Nello specifico, come conclude l’articolo del NEJM, “è necessaria molta più ricerca scientifica di base per determinare il ruolo potenziale che l’immunoregolazione basata sull’idiotipo delle risposte umorali e cellulo-mediate può svolgere sia nell’efficacia antivirale che negli effetti collaterali indesiderati dell’infezione da SARS-CoV-2 e dei vaccini che ci proteggono dal virus”. Rimane, quindi, ancora molto da studiare e da comprendere sui complessi meccanismi che regolano il nostro sistema immunitario e i suoi meccanismi di autoregolazione ed è possibile che da una maggiore comprensione di fenomeni nasceranno nuove risposte ad alcuni effetti della malattia Covid-19, in particolare rispetto alla sua patogenicità multiorgano e a tutte quelle conseguenze protratte nel tempo che vengono definite come “sindrome da longcovid” e che sono state finalmente riconosciute dalla comunità scientifica tanto che, oggi, rappresentano un serio problema al quale occorre fare fronte. BOX Annual review of immunology, 1993 Abstract dell’articolo “The Role of Autoantibodies in Autoimmune Disease”. Yaakov Naparstek, Clinical Immunology and Allergy Unit, Department of Medicine, Hadassah University Hospital, Jerusalem, Israel Paul H. Plotz, Arthritis and Rheumatism Branch, National Institute of Arthritis and Musculoskeletal and Skin Diseases, National Institutes of Health, Bethesda, Maryland “Nelle malattie autoimmuni, gli autoanticorpi possono essere i veri agenti patogenetici della malattia, le conseguenze secondarie del danno tissutale o le impronte innocue di un agente eziologico. Stabilire un ruolo patogenetico per gli autoanticorpi richiede che soddisfino criteri rigorosi. Sembra che la posizione del presunto antigene bersaglio influenzi in modo più critico il potenziale patogenetico degli autoanticorpi. Gli autoanticorpi diretti contro bersagli sulla superficie cellulare, come i recettori ormonali, sono chiaramente patogenetici; quelli diretti contro bersagli extracellulari, come molecole circolanti o matrice extracellulare, possono o non possono causare alcun danno. Quelli apparentemente diretti contro bersagli intracellulari di solito non sono patogenetici a meno che non possa essere chiaramente dimostrato (a) che l’antigene viene rilasciato dall’interno della cellula in modo che possa legarsi a un recettore della superficie cellulare o ad un’altra posizione extracellulare, come la proteinasi 3; (b) che l’antigene si sposta in un sito aberrante sulla superficie cellulare, come, forse, il piccolo antigene ribonucleoproteico Ro; o (c) che una molecola cross-reattiva, il bersaglio effettivo, come la proteina simile alla P ribosomiale di membrana, si trova in una posizione accessibile”
Dott. Alessandro Fornaro