Considerazioni in merito al fine vita
Tracciare un limite etico alle cure
Periodicamente giunge alla ribalta dei circuiti mediatici la notizia che un malato giunto a fine vita o con una prospettiva di vita estremamente compromessa
Parlare di fine vita è un argomento che ci colpisce emotivamente quindi si accende subito un dibattito mediatico che diventa subito appetibile da coloro che strumentalizzano il caso ai propri interessi (politica, giornali. Tv ecc.).
Certo che il caso del Diskjockey Fabo, come tutti gli altri che sono passati dalla passerella mediatica, ha in comune con gli altri sempre la stessa cosa: quello di non avere nulla in comune con gli altri.
Da questa riflessione ne scaturiscono di conseguenza altre:
- Ogni caso di richiesta di fine vita è sostanzialmente diverso dall’altro quindi diventa difficile per una legge regolamentare e disporre sul fine vita.
- Per rispetto della persona è scorretto che parta il carrozzone mediatico dove tutti dicono di tutto strumentalizzando il caso ai propri interessi
Nella fattispecie delle tipologie definirei il fine vita causato da tre differenti motivazioni:
- Non vuole vivere: quando nel processo di negoziazione che avviene tra paziente e suo stato morboso avanzato il paziente stremato fisicamente ma soprattutto psichicamente decide di capitolare ed arrendersi.
- Non può vivere: è il caso della malattia terminale ed ormai irreversibile
- Non deve vivere: questo è il caso della morte cerebrale che una volta accertata apre la strada alla cessazione delle cure aprendo l’opportunità della donazione d’organo(qualora fosse stato espresso in vita o con il parere favorevole dei familiari).
Sarei quindi a favore, come già avviene per la morte cerebrale, della nomina di una commissione di esperti nominata dal tribunale (o nominata dagli organi sanitari competenti) che analizzato il caso specifico e servendosi della propria esperienza clinica o delle consulenze specifiche necessarie esprimano un giudizio che dia al giudice gli elementi per esprimersi.
Queste norme verrebbero a far parte di una legge che, nel rispetto della volontà individuale, metta ordine al confine ancora non ben definito tra limite delle cure e rispetto della dignità della vita quando si giunge a morte.
Molti casi in medicina hanno i confini non ben definiti. Questa carenza nasce fondamentalmente da una nostra incompleta conoscenza scientifica attuale che non è in grado di fornire all’etica individuale e di gruppo certezze su cui poggiare il proprio credo.
Questi casi prendono il nome di Dilemmi Etici ed i più noti sono quelli che riguardano l’aborto, il fine vita, l’automazione delle macchine e l’uomo ecc.
Trapianti, morte cerebrale e aborto sono attualmente regolamentati per legge. L’eutanasia è regolamentata da norme scientifiche e deontologiche.
Un dilemma etico può essere descritto come una decisione che richiede una scelta tra principi concorrenti, spesso in contesti complessi e con elevata carica di responsabilità.
- Ci sono buone ragioni (o cattive ragioni) per decidere in un modo o nell’altro
- Le decisioni prese avranno comunque una implicazione (costo) morale per chi sceglie
- Le decisioni avranno un costo (individuale e/o sociale) nei confronti di coloro verso cui si esplica la scelta.
La difficoltà dei dilemmi etici non sta tanto nell’affermare la propria verità o ancora peggio il proprio credo ideologico ma sta nel trovare l’argomentazione giusta che concili posizioni contrastanti.
In genere il segreto sta nel trovare le affinità che accomunano posizioni divergenti e non tanto esasperare le posizioni del proprio credo.
Tutti i dilemmi etici hanno una cosa in comune:
sono come dei grandi virtuosi del proprio strumento musicale ma messi insieme generano solo rumore e non armonie.
Per dipanare il dilemma etico serve un direttore d’orchestra che sappia unire le affinità e cancellare le disarmonie.
Per poter approfondire il dibattito sul fine vita, a mio avviso, andrebbe inserito il concetto di “Emozione primordiale”.
In un suo scritto D. Denton analizza le emozioni primordiali come dolore, emozione, paura, ira cioè quelle sensazioni che l’uomo prova quando si trova di fronte alla consapevolezza di danno imminente o di morte.
Per meglio comprendere la sofferenza bisogna analizzare il concetto di autocoscienza del proprio star male.
Denton definisce autocoscienza come consapevolezza di sé e della capacità di percepire a livello cosciente od incoscio la malattia o il pericolo di vita.
L’autore affronta l’autocoscienza dal punto di vista della consapevolezza dell’aggressione che la malattia fa nei confronti dell’uomo. E questa Autoconsapevolezza sfocia in sofferenza fisica, interiore ed esistenziale.
Dopo un’analisi circostanziata e documentata da esperimenti, condotti utilizzando le più recenti tecniche di diagnostica per immagini, egli giunge ad una serie di conclusioni.
L’autocoscienza della malattia è rendersi conto a livello conscio o inconscio della mancanza per l’organismo degli elementi fondamentali della vita come: Aria, Acqua, Sali e Cibo.
Questa mancanza genera sofferenza, angoscia e dolore e l’autore dimostra come tali emozioni primordiali siano presenti anche in altri mammiferi
Inoltre attraverso una analisi attenta mette in evidenza come questa sofferenza legata al pericolo di vita sia presente anche in altri mammiferi. Gli animali e tutti gli esseri viventi sembrano possedere non solo un senso innato di espansione spazio-temporale (territorio e prole) ma anche percezione di un’anima universale che vivrà oltre la loro carne che aiuta molto nel capire il momento del passaggio tra la vita e la morte.
Da queste affermazioni possiamo quindi intravedere una linea di comportamento pratico medico ed etico sociale: impedire a chi sta per morire di farlo con la percezione sofferente della sua coscienza.
Ed entrando nel merito sarà compito del medico di mantenere l’apporto di acqua, sali , aria e di abolire dolore e sofferenza percepita in termini di imminenza della morte.
Se in natura vi sono esempi di scelta cosciente tra gli animali, anche l’essere umano dovrebbe avere il diritto di fare delle scelte di fine vita, aldilà delle opinioni precostituite e schiave di etichette d’appartenenza.
E’ auspicabile quindi che anche l’individuo, nel rispetto dell’etica individuale, collettiva e religiosa, possa tracciare delle linee di comportamento, di sua esclusiva scelta, che lo portino a prendere delle posizioni sul termine della sua vita. Tutelare la propria dignità a fronte della ricerca di una finta immortalità che ci ricorda il mito di Titone ed Eos.
Insomma ancora una volta la natura ci indica quale è la strada giusta ed in accordo con Colui che la natura stessa ha creato.
Quindi poiché, come abbiamo analizzato prima, tutte quelle carenze (Aria, Acqua, Sali, Cibo, Dolore) sfociano in quella emozione primordiale di Angoscia e Consapevolezza del termine della vita la medicina deve lenire le sofferenze non solo fisiche ma soprattutto psichiche ed esistenziali.
La mia personale posizione è che nel momento in cui qualsiasi malattia diventi incurabile sia dovere e servizio di ogni medico curare ciò che procura sofferenza al malato garantendogli un’avvicinarsi alla morte salvaguardando la dignità della propria persona.
Probabilmente i social network non sono i balcone ideali dove analizzare col giusto pluralismo di opinioni tutte legittime e tutte opinabili idee ma tutte frutto della libertà d’espressione individuale.
Tuttavia essi rappresentano un modo semplice immediato ed esteso per rivolgersi ad un pubblico eterogeneo quindi differenziato nei giudizi.
Cosa assai difficile è mettere insieme le diverse posizioni e garantire giusta morte al sofferente senza intaccare la sua (o dei suoi cari) voglia di farla finita e senza violare la volontà del curante di non provocare deliberatamente la morte.
Come la pensi chiunque altro che non è morente o curante è di nessun rilievo se non quello di trasformare un problema individuale in un’etichetta ideologica.
Per chiudere dirò che la mia posizione personale è allineata con la negazione di una eutanasia attiva (poichè proibito per giuramento ad un medico) ed alla attuazione della eutanasia passiva ovvero la sospensione delle cure verso una malattia ormai incurabile e cominciare una cura fatta di abolizione delle sofferenze e della impegno a garantire dignità della vita di fronte alla morte; ove per sofferenze si intendano tutte quelle emozioni primordiali spiacevoli come fame, sete, fame d’aria rabbia, impotenza e dolore. Abolirne solo qualcuna non ci mette al riparo dall’aver curato a fondo le sofferenze del morente. Quindi garantire acqua, sali, cibo, aria e soprattutto sedazione della sofferenza.
E al sopraggiungere della morte non ci si trovi impreparati ad accoglierla con la dignità di persone. Ed in questo il medico può fare tanto dal lenire la sofferenza con farmaci ma anche con parole o semplici gesti come stare vicino al malato nell’imminenza e solennità della morte stringendo la mano o semplicemente dando una carezza.
E termino dicendo che il ruolo del medico non sta tanto nell’accettare le sia pur legittime richieste di chi sta vivendo la fase finale di una malattia irreversibile ed infausta quanto quello di far arrivare il paziente che ha già perso e negoziato la sua guerra per la vita alla fase del passaggio alla morte nella sua piena dignità di essere umano.
Dott. Enzo Primerano